Stagioni amorose (1920-1996)

-Riflessioni-

[Di Miramondi Ernesto]

Rinaldo de Benedetti Stagioni amorose (1920-1996)

[Rinaldo de Benedetti Stagioni amorose (1920-1996) edizioni Studium]

Rinaldo De Benedetti. Uno, nessuno, centomila; un volto tra i volti.. eppure così unico.

Ecclettico quanto basta per annoverarlo tra i grandi, capace di invenzioni letterarie e scientifiche quali le Garzantine, piccoli gioielli del sapere per chi, come me, studente della vecchia guardia, le ha tenute tra le dita alla ricerca di soluzioni, di risposte tascabili a quesiti di varia natura e importanza.

Un uomo molte vesti, di volta in volta scrittore, divulgatore scientifico, giornalista, studioso dei classici greci e latini, poeta e, per ogn’una di queste vesti, uno pseudonimo, una sezione quasi perfetta di una personalità assai composita.

Eppure trattasi di un personaggio schivo, non avvezzo ai clamori. Un uomo solido, pacato ma per nulla remissivo. Capace di reggere l’urto della persecuzione politica prima ancora che raziale, mantenendo intatta, anche nel mortale pericolo, la sua coscienza e dignità d’uomo.

Lo descrive molto bene, già nel titolo, Francesca Romana Dé Angelis su “L’’Osservatore Romano” in una recensione datata 31 luglio 2024: “La vita quotidiana senza orpelli”.

Sempre a cura della De Angelis l’ottima prefazione al libro.

Ulteriori recensioni su altre opere e sulla vita di Rinaldo de Benedetti li troviamo sempre sulle pagine di Enfleurance a firma Adriana Giannini ed Emanuele Azzità, belle penne, che a Enfleurance siamo davvero onorati d’ospitare.

Consapevole che la poesia è stata per De Benedetti un dono prezioso, una compagna discreta che l’ha accompagnato per tutta la vita, un luogo dello spirito in cui calarsi per riflettere, contemplare e dare forma alle emozioni ecco che con questo libro tra le mani, procedendo nella lettura, l’immagine che ne emerge è molto semplicemente quella di un uomo.

La grande avventura dell’essere umano.

Il suo credo, i desideri, le speranze, gli amori, gli stati d’animo ora alti ora bassi, il senso dell’estetica che muta negli anni pur mantenendo una matrice classica e sempre, sempre un personale grande senso d’equilibrio, giustizia e bontà.

Diritto alla meta, come un battello che solca acque a tratti perigliose ma che sa mantenere diritta la rotta, con una scia talmente netta che neppure fa sembrare quanto il mare sia stato spesso in tempesta.

Tutto questo mi accheta; in un mondo dove sembra che il bene sia un’eccezione, una debole parentesi in un oceano di male assoluto, dove giustizia, pace e rispetto reciproco sembrano essere solo parole vuote, ipocrite e avulse dalla realtà, il suo spirito mi riassegna un ruolo soggettivo e mi riconduce in una realtà a dimensione umana!

Non più solo il clamore delle frasi fatte, il mondo dei contrapposti, dei mostri senza appello, del pensiero unico. L’indistinguibile, ipocrita, falso vestito di vero, dei social ma qualcosa di infinitamente più composito e profondo: la coscienza di un uomo, con tutta la sua soggettività che può essere bianca, nera o ricca di infinite sfumature, perché l’essere umano è questo.

Nella poesia: “L’ultima preghiera del pio ebreo” trovo un incedere dolce e tremendo nello stesso tempo;

Provo la forza feroce e ineluttabile di un destino senza senso che ti afferra e ti sospende in una realtà aliena. Nell’attesa di far precipitare l’umano essere nel nulla assoluto con nel cuore un solo pensiero… “Dio, perché mai tutto questo?”

Mi riporta alla mente Primo Levi in “Se questo è un uomo”, nelle pagine che descrivono la notte che precede la deportazione:

“… Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino voi non gli dareste oggi da mangiare?”

Che profonda tristezza!

Quanti momenti come questo l’umanità ha dovuto affrontare? E quanti lo sono ora, mentre sto scrivendo?

Quanti i pogrom? vili atti che non hanno purtroppo insegnato ai perseguitati a non essere a loro volta persecutori, portatori di pacifica tolleranza.

E quante mamme accudiscono in una povera tenda di sopravvissuti, come tante, un bambino che domani sarà reso cenere dallo scoppio di una bomba?

Quante, donne uomini bambini camminano stanchi, con la piena consapevolezza che un cecchino li sta aspettando?

Migliaia di anime in marcia senza una colpa, nella vana ricerca di un luogo dove sopravvivere, per sfuggire alla terribile morsa di fuoco, distruzione e carestia.

Ma in fondo il male così come il bene non ha confini. Non è il figlio legittimo di un popolo, è semplicemente trasversale, il triste retaggio di un’intera umanità e va reso inoffensivo.

Sono molti i mostri che si arrogano diritti di supremazia verso altri esseri umani, magari affermando d’essere stati investiti nel loro ruolo da Dio e le morti provocate, le infinite sofferenze, sono giustificate da fini supremi! effetti collaterali!

A prescindere che nelle Tavole della Legge, tra i dieci comandamenti io leggo: Non uccidere. Non dire falsa testimonianza. Non rubare. Non desiderare la roba d’altri… e non trovo nulla al riguardo di mandati messianici!

Eppure nei memoriali, su fibbie militari, bandiere e nastri d’ogni genere troviamo molto spesso frasi del tipo: “lo vuole Dio”.. perché?

Ed io tremo al pensiero che questo orrore, voluto dai signori della guerra, non possa avere fine e che quest’onda ci sommerga tutti nel suo abbraccio mortale.

Ma la poesia di Rinaldo De Benedetti riesce a fermare la valanga dei pensieri tumultuosi riconducendomi all’uomo, quello di pace. La sua è soggettività schietta, lineare e senza fronzoli, per nulla bellicista, è un vero antidoto al male …

“… E’ come se tutto il dolore 

che il mondo porta con sé

avesse scelto queste ore

per piangere dentro me.”

Ma il suo racconto va oltre, descrive il suo incanto nella natura che non tramonta con l’età, anzi si attempa e diviene più profondo, più intimo.

Narra l’amore. Narra lui, uomo dalle mille risorse, di sogni inevasi perché “uomo di non molti denari” che deve prima soddisfare i bisogni della famiglia, lo studio dei figli.

Narra di un sogno che nel suo incedere, me lo rende fratello:

“Ho fatto un sogno che non c’è il più strano:

intenta era la gente al suo lavoro,

chi a tesser panni, chi a falciare grano,

chi a batter ferro e chi a cesellare oro.

Né mai chiedeva ad altri alcun di loro

s’egli fosse straniero ovver paesano,

di che fede, che parte, che decoro:

ciascun d’essi null’altro era che umano.

Non ira o odio o meditata insidia

trasparivan lor volti e lor parole;

non occhiuta avarizia o amara invidia.

Mio Dio, se è ver che tue mani immortali

formar il padre dell’umana prole,

mio Dio, perché non ci faceste tali?”