[Intervista di Ernesto Miramondi]
IL RUOLO DELLA POESIA OGGI
E’ già capitato. Incontrare, anche solo ascoltare Gianluigi Gherzi, riesce sempre ad avvolgermi in un tempo peculiare. L’impressione che ne traggo è quella di essere immerso in un “tempo tranquillo”, come se le lancette dell’orologio, pur scorrendo, lo fanno con movimento impercettibilmente più lento, pacato. Scandito da un metronomo che raccoglie il tempo e lo restituisce in musica.
Gianluigi Gherzi è persona colta e semplice, equilibrata, dotata di una naturale gentilezza che parla al cuore.
Pochi scambi di parole e ci si ritrova con naturalezza compagni di viaggio nei sentieri di un mondo sbalestrato. Ben si sposa tutto ciò con quanto scritto da Franco Arminio in prefazione al libro di Gherzi “Ti aspetto nella mia casa a disordinare” ed. AnimaMundi.
Poeta, regista, attore. In uno straordinario laboratorio sotto l’egida di AnimaMundi, assieme ad altri poeti, ha dato vita ad un fantasmagorico laboratorio d’arte e cultura. Letture e poesia. Qui si narra di una poesia che incontra il mondo viaggiando per le strade, con la gente, con le arti, i mestieri e i pensieri di un mondo che cambia. Un dialogo che coniuga la scrittura al quotidiano in un incedere poetico che diventa “fotografia di parole”, testimone e interprete di un sentire profondo portato a fil di voce.
Inizio la mia intervista che purtroppo spezza il filo delle sensazioni. Mi ritrovo a porre domande che, come tutte le domande, possono divenire impertinenti in un mondo che sa percorre i sentieri di vita in punta di piedi, nutrendosi anche di silenzi. Ma la poesia è grande e imponente come il mare, abbracciarla nella sua vastità è cosa assai difficile, ci si può disperdere. E Gherzi, maestro attento e gentile, ci può aiutare indicandoci i contorni e conducendoci con semplicità lungo i sentieri della comprensione.
[E.M.]: Ciao Gianluigi. Come stai?
[G.G.]: Bene. Se bene vuol dire mantenere vivi quegli scambi di pensiero che alimentano la nostra vita.
[E.M.]: Una delle finalità di piazza Enfleurance è quella di collaborare alla costruzione di una società più equa, sostenibile e a misura d’uomo, individuando nel territorio dell’umano vivere quanto già è realtà o si sta muovendo in tal senso sia in ambito culturale che nel mondo delle iniziative o associazioni.
Ponendo come tema principale la poesia, e in generale le arti, pensi che queste possano avere un ruolo importante nei cambiamenti del pensiero umano e nella sua evoluzione verso la ricerca di un modo di vivere più a misura d’uomo?
[G.G.]: La poesia, ma direi l’arte in generale, apparentemente, non agisce in modo prepotente nel mondo del reale, occupandosi principalmente di trasformare l’immaginario, educare le emozioni e, in qualche maniera prefigurare modi possibili della vita, e dell’umano.
Cosa vuol dire questo, nel particolare tempo in cui viviamo?
Può voler dire che l’arte può aiutare a trasformare quei paradigmi molto vecchi, estremamente letali, che stanno di fatto ancora dominando la nostra vita. Paradigmi intesi come forme di pensiero in cui siamo coinvolti tutti. Per contro, noi attualmente non abbiamo un paradigma capace di affrontare la crisi ecologica. Non abbiamo nuovi paradigmi di pensiero capaci di riconnetterci, non solo con il mondo dell’umano, ma anche con gli altri mondi quali il mondo vegetale o animale. E quindi il lavoro della poesia è quello di cominciare a creare dentro l’anima delle persone quegli spazi capaci di reagire, ridiventare sensibili e capaci di immaginare la vita come qualcosa di realmente intero e ricco.
Fa questo lavoro sotterraneo l’arte, la poesia nel momento in cui questa trasformazione, che nasce in modo spontaneo in ognuno di noi, si concretizza in pratiche dell’incontro generando un’alchimia.
La poesia, l’arte, servono a far incontrare le persone, a trasformare un luogo, a rincontrare un paese a inventare una festa e un modo di stare nella festa. Ci portano ad essere parte di battaglie che riguardano concretamente la nostra vita quotidiana e il rapporto con la natura, alle cose, ai diritti che ci mancano.
Quindi la poesia, da questo punto di vista, non sta sopra l’umano. Non predica e non vuole insegnare. Non vuole fare pedagogia. Vuole stare dentro la vibrazione, la battaglia dell’umano. Vuole stare accanto non sopra. Vuole accompagnare questa tensione a cambiare la vita, la realtà che ci circonda.
Il senso della pratica artistica è quello di prefigurare, in primo luogo nelle anime e a volte anche nelle relazioni tra le persone che si collegano attraverso l’arte, forme di mondo nuovo, forme di mondo possibile e dunque cominciare ad arare questo terreno in modo che si possa seminare nei luoghi dove piante di respiro e pensiero nuovo si possano fortificare e crescere fino a trasformarsi in paesaggio. Perché una piantina parte come piccola cosa ma in certi momenti, quando le piante che crescono insieme sono tante, si assiste alla trasformazione del paesaggio. Del nostro paesaggio storico, antropologico e culturale.
Spero di essere stato chiaro. La poesia non dà linea, non insegna un comportamento corretto ma esplora, cerca di capire, quel dolore che non ci fa essere umani o quel dolore che ti sottrae il mondo e mentre esplora il dolore suscita e sperimenta anche energia di gioia. Gioia della visione, della possibilità intravista, dello squarcio topico che si apre. Del respiro di futuro che ci entra dentro nella pelle. Quindi la poesia, come tutte le arti, in questo momento, è chiamata a stare al fianco dell’umano e a fianco del pianeta minacciato.
Compito della poesia e dell’arte è di slargare di molto lo sguardo, in qualche maniera uscire dalle stanze chiuse o dalle esplorazioni all’interno della singola anima, del singolo individuo, l’io, per giungere alla forma del noi. C’è una grande scrittrice indiana, Arundhati Roy, che per alcuni versi tratta proprio di questa questione sull’arte. Noi stiamo vivendo un momento di trasformazione radicale, vertiginoso. Siamo in fondo la prima generazione che concretamente si sta scontrando con un problema di sopravvivenza del pianeta, di disastro all’interno degli equilibri naturali. Stiamo assistendo a fenomeni storici con migrazioni di centinaia di milioni di persone da un continente all’altro. E’ possibile che l’arte, in qualche maniera, si faccia carico di sentire la portata di questa trasformazione, questo respiro, respiro del cosmo oltre che degli individui. Il respiro di un mondo in difficoltà.
Si chiede Arundhati Roy, come mai non abbiamo ancora un grande romanzo che possa raccontare di queste cose e quindi la domanda in tal senso diventa forte. A questo punto, su questi temi, la poesia in questi ultimi anni, mi è sembrata particolarmente sensibile.
[E.M.]: Sì, personalmente credo che l’arte e la poesia sanno essere strumenti potenti per restituire alla collettività il proprio sentire ovvero l’indagine introspettiva e profonda che avviene nel nostro io, fatta di bisogni e ricerca di verità soggettive ancor prima che collettive.
Avviene così la consegna al mondo, oserei dire in modo spontaneo, del “sentire interiore” in piccoli grandi frammenti di riflessione.
E questo permette di aggregare spiriti affini, generare una sinergia di pensiero che amplia le coscienze in modo più articolato e ampio, frutto di una necessità collettiva di trovare una soluzione ai propri disagi ma anche per individuare le cose che ci fanno stare bene, che inducono serenità se non addirittura felicità.
Questo tempo così peculiare per l’umanità, così pericolosamente in bilico, di pari passo con le sorti del pianeta e che mai come in questo momento di pandemia si è scoperto così vulnerabile, fragile e bisognoso di un nuovo linguaggio universale mi porta alla mente Shakespeare nell’Amleto: “Questo tempo è fuori dai cardini. Maledetto destino, che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto”. Nel senso che in un “mondo fuori dai cardini” l’arte può avere il potere di porre in rilievo e aggregare i frammenti del sentire comune, avviando e coniando nuovi linguaggi e modi di vivere.
Avviando sentimenti di speranza Pablo Neruda scriveva: “Ricostruire senza sosta la speranza”. L’arte sa regalarci la presa di coscienza attraverso la descrizione di sé e del mondo in cui siamo immersi e sa darci le ali per costruire la speranza.
[G.G.]: Trovo che quanto scritto nell’Amleto sia meraviglioso anche se, in questo tempo, mi verrebbe da cambiare il “maledetto destino, che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto” con “.. benedetti noi che dobbiamo rimetterlo in sesto”.
Lavoro titanico, impossibile rimettere individualmente il mondo sui cardini.
Può farlo la seminagione dei frammenti che poi si uniscono lentamente nella diversità anche delle persone che concretizzano un nuovo paradigma che non è fatto solo di pensiero, è fatto anche di modo di respirare, di agire, di fare i lavori manuali, di sistemare un giardino, di progettare una casa.
E’ sì un pensiero ma anche una pratica, uno sperimentare nuove forme. Forse quel procedere per frammenti e parlo dell’arte, è in qualche modo necessario per costruire un paradigma diverso.
Non può però essere, che possa trasformarsi immediatamente nella scoperta di una nuova idea, che da subito ricomprenda un’analisi completa e soddisfacente di tutte le contradizioni del pianeta e il novecento è finito da un pezzo. E’ proprio dall’unirsi dei frammenti e delle diversità che in qualche maniera queste nuove forme di pensiero si creano facendo i conti con la frammentarietà e addirittura con le apparenti contraddizioni al proprio interno.
Il frammento che scopro io sarà senz’altro diverso dal tuo. O magari no, magari sì, magari di diversa intonazione come frammenti che si scoprono in altri continenti a livello di pensiero e questo diventa estremamente interessante.
Se noi esistiamo, se abbiamo assistito alla morte delle ideologie, noi ora non dobbiamo correre il rischio di sostituire con una nuova ideologia quelle che sono tramontate. Noi dobbiamo creare una forma di pensiero ariosa, capace di accogliere la diversità, la differenza capace di non distinguere tra l’azione dell’artista e quella del giardiniere o del falegname o dell’operaio.
Dobbiamo in qualche modo farci forza di questa differenza e diversità e continuare ad aggiungere tasselli ad un mosaico possibile, in costruzione, senza mai dimenticare che ogni pensiero ha necessità di una pratica e questo vale in particolar modo per l’arte, per gli intellettuali, per la poesia.
Non basta semplicemente avere il pensiero se questo poi non si radica incontrando attraverso la poesia le persone; leggere la poesia, portare la gente a creare poesia, a farla diventare un linguaggio proprio. A viverla in tempi e modi inusuali. A superare le forme ormai un po’ defunte del libro di poesia per pochi eletti dell’edizione da cinquanta copie.
Se dobbiamo innestare continuamente quelle che sono le intuizioni di pensiero in quelle che sono le pratiche che cambiano, che poi sono pratiche di rapporto con il mondo, allora una grande lezione in tal senso ce l’ha data un genere musicale, il Rap e, soprattutto, la storia dell’incontro tra il Rap e la poesia. Nel senso che questo, in certi momenti, ha messo in gioco la separatezza e l’astrazione della forma artistica rispetto alla vita, ha dato voce a comunità e a sentimenti diffusi.
Sorvolando su come sia poi diventato anche una forma di commercio musicale, possiamo tuttavia dire che comunque la poesia è intuita e questo grazie anche a grandi poeti o poetesse che hanno popolato e a tutt’oggi popolano il mondo del Rap. Cito a titolo d’esempio Kae Tempest rapper e poetessa londinese e alla sua straordinaria dote di saper restituire la poesia al canto e alla musica la poesia e questo in quei grandi incontri che sono i concerti.
E questo accade anche per altri generi musicali, come ad esempio il free jazz americano, di cui, per alcuni interpreti è stato coniato, e non a caso, il termine di free jazz poetry. Uno dei più rappresentativi si chiama “Irreversible Entanglements” (Intrecci Irreversibili), dove viene resa una poesia che non ha più paura di confrontarsi anche con la quotidianità degli scontri, delle lotte quotidiane, le rivolte nere.
Di un popolo come quello nero che anche attraverso la poesia e la musica sta cercando di ridirsi “chi siamo, da dove veniamo a cosa aspiriamo”.
Quindi ci ritroviamo in un panorama vivo, composito e estremamente interessante. Un panorama dove parlare di poesia, di arte, paradossalmente coincide con le pratiche esercitate e le scoperte. Pratiche della poesia in rapporto al mondo, in rapporto all’incontro con il mondo.
A quegli esperimenti di vita e poesia che stanno avvenendo nei più svariati luoghi, anche nelle residenze per anziani in cui ci sono progetti in atto assieme a studenti e scuole.
Ecco, la separatezza dell’intellettuale, la separatezza del poeta dal mondo mi sembra qualcosa non più sostenibile.
[E.M.]: Mi vien da dire che la poesia ha molte case. Molti luoghi dove soggiornare e crescere.
Canta di smarrimenti e di sogni infranti o di speranze future. Recita madrigali al suono di un liuto o al suono stridulo di un telaio. Racconta il vissuto e lo espone al mondo.
Ma l’universalità della poesia ha tenuto per mano l’uomo in tutto il suo percorso evolutivo. Ne ha accompagnato il respiro mutando di volta in volta aspetto a seconda delle esigenze o delle necessità. La ritroviamo nei dipinti preistorici in un filo di Arianna che ci conduce fino ai giorni nostri, in miglia di soffi d’amore o di gloria, di sconfitta o speranza. In ogni luogo dove esiste un cuore che batte. Anche in corpi apparentemente refrattari ad essa. Mi viene da pensare a titolo d’esempio al Capitale di Karl Marx.
Ora, abbiamo detto, ci troviamo in un periodo topico. Sede di grandi mutamenti senza più l’uso o il supporto delle ideologie del passato ormai logore e inadeguate alle nuove esigenze.
Un mondo morente e la necessità di costruire nuovi strumenti di sopravvivenza. Nuovi modi di organizzare la vita. Ormai parole d’ordine quali “eco sostenibile”, “transizione ecologica”, “risanare il pianeta” sono ampiamente sdoganati e ormai in mano alla nuova economia che sta investendo ingenti capitali.
Per contro conviviamo alla grande con un mondo affossato da grandi ingiustizie e contraddizioni. Dove grandi aree geografiche dovranno fare i conti con un futuro sempre più triste.
Ma è anche vero che in questi anni, anche forse per un vuoto ideologico, si sta diffondendo sempre più una coscienza trasversale. Fatta di desiderio di una vita migliore, più sana, una rivoluzione volta a rimettere sui cardini principalmente la vita. L’uomo e la sua casa.
E, come del resto per tutte le rivoluzioni, anche questa investe in sogni e desideri e soprattutto speranze di cui la poesia, l’arte, la cultura in generale raccontano.
Un errare alla ricerca di un nuovo modo di procedere per la costruzione di un nuovo paradigma.
Tu non credi che tutti i frammenti, le nuove istanze che emergono nell’arte, cantati nella poesia, alla lunga non possano divenire i mattoni per la costruzione di un nuovo paradigma? Un collante per la formulazione di un nuovo archetipo portatore di nuove istanze e che sappia descrivere un mondo più giusto e umano?
[G.G.]: No. Non lo penso, sinceramente.
Non penso che la poesia possa essere definita un collante. Non sarei così teorico nel ruolo e nell’identità della poesia.
La poesia è una domanda, una ricerca oggi. E’ un’interrogazione al mondo.
Quei frammenti non ricostruiscono un pensiero omogeneo né tantomeno ricostituiscono o riaggiornano il cosiddetto “pensiero di sinistra”.
Non trovo nella pratica della poesia questo tipo di cosa. Mi interessa di più che la poesia sia luogo dove continuamente si avanza la domanda timida e balbettante. Descrivere al mondo, alla nostra condizione, la nostra separatezza dai suoi equilibri.
Se la poesia sta diventando così forte, non è tanto perché aspira ad una totalità ma perché nella sua domanda, nell’umiltà della domanda, essa viene riconosciuta da molte persone e allora diventa una compagna di strada nella difficoltà dell’umano.
In certi momenti può diventare, al massimo, una consigliera ma, nello stesso tempo non deve mettersi a fare la politica, non deve astrarre, non deve creare nuovi modelli.
L’arte non è uno strumento per esprimere una condizione, non la esprime, lo è in quanto tale. Siamo soggetti di azione, non siamo megafoni di condizioni altrui, non siamo il megafono del dolore del mondo, siamo il dolore del modo. Ne siamo anche la gioia.
Io credo che c’è un mutamento nella funzione dell’arte da questo punto di vista, l’artista oggi non esprime i contenuti del mondo, li riporta in una forma artistica. L’artista, il poeta è uomo, è un lavoratore, è immerso nel mondo. E’ una condizione, non la esprime.
Come dire? Credo che sia in questa direzione che la poesia sta ritrovando le sue nuove strade. Tengo a sottolineare che il poeta oggi non parla in nome di nessuno ma parla in nome di se stesso che è essere politico, essere senziente, essere minacciato, essere che sta scomparendo insieme al pianeta ed è in questo senso che in lui entrano le voci del mondo perché è parte del mondo, non cerca di tradurre le battaglie, le istanze e farle diventare canto, questa è un’ipotesi di poesia che non mi sembra più attuale, commisurata a quello che stiamo vivendo.
Aggiungo poi che in un’intervista sulla poesia non abbiamo sufficientemente spazio per un dibattito sulla funzione dell’arte e il ruolo degli artisti che è un terreno aperto e la ricerca sta andando avanti perché stiamo ancora cercando una modalità, un “essere” in qualche maniera.
[E.M.]: Grazie Pierluigi per il tuo tempo e per le tue parole, sono state senz’altro motivo di chiarezza e riflessione per meglio comprendere il mondo e il ruolo della poesia oggi.
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