[Testo e foto di Antonella Marsiglio]

LETTERA DI UN ALZHEIMER AL FIGLIO

 

“Senti quella pelle ruvida, 
un gran freddo dentro l’anima,
fa fatica anche una lacrima a scendere giù…”

Renato Zero

Ciao figlio mio,

da quanto tempo non ci parliamo? No, non ti sto accusando di lasciarmi solo, non ti arrabbiare subito, è che … ho solo un po’ di nostalgia di quelle nostre chiacchierate, te le ricordi? Ricordi quando dopo la tua laurea mi chiedevi consigli su quale strada intraprendere? Iniziare subito a lavorare oppure fare un master? Ricordi? Io ti rispondevo di seguire il tuo istinto, che se avessi voluto fare un master avresti dovuto proseguire la tua strada, cercando di rassicurarti e di farti capire che avrei pensato io all’aspetto economico.. E quando volevi comprare casa? Quante notti abbiamo passato alzati fino a tardi  guardando le planimetrie, a discutere di acconti, prestiti, tassi d’interesse… ad affrontare le tue giustificate paure di non farcela, ma io ero sicuro che saresti stato all’altezza della situazione.

Poi il matrimonio, i figli, la scelta di andare ad abitare in città per dare più opportunità alla tua famiglia.

Abbiamo iniziato a vederci di rado, alla domenica sono di colpo arrivate prima le partite di calcio poi quelle di pallavolo e io non sono mai riuscito a dirti quanto fossi orgoglioso di vederti così presente nella vita dei tuoi figli. Perdonami se con te non sono stato capace di fare altrettanto , ma ho fatto quello che ho potuto per darti il meglio; dovevo lavorare, la mia famiglia non si poteva permettere una laurea, ma il lavoro non mi ha mai fatto paura,  ho sempre dovuto faticare con le mani, e ho dato fiato a tutte le mie energie per non lasciarti in eredità una vita come la mia, ma la speranza di un bellissimo futuro.

Volevo darti la possibilità di studiare, volevo aiutarti a comprare una casa perché non volevo che tu vivessi di sacrifici come  me e tua madre: mai una vacanza, mai una cena fuori, mai un teatro..        So che per un periodo mi hai odiato, che hai creduto che fossi io a obbligare la mamma ad una vita così triste, ma sai, la verità è un’altra, e credo sia arrivato il momento di confidarla all’uomo che sei diventato:  io e tua madre abbiamo deciso insieme tutti questi sacrifici e lo abbiamo fatto il giorno stesso che abbiamo saputo che presto ci saresti stato anche tu.

È così lontano quel tempo che faccio fatica a metterlo a fuoco nitidamente, faccio fatica a tenere a mente quello che ho mangiato a pranzo, anzi a dirla tutta non ricordo neanche se ho mangiato però ricordo come era bella mia madre da giovane, sai? Era proprio bella tua nonna da giovane, tu non l’hai quasi conosciuta, ma era una donna buona … buona e stupenda.

E ricordo anche Enrico, il mio amico d’infanzia, ma forse questo era meglio che non lo scrivessi, adesso ti arrabbierai perché non ricordo mai il tuo nome e lo vedo che questa cosa ti fa arrabbiare, vorrei chiederti scusa, ma le parole non escono.

Vorrei così tanto che le parole uscissero sai? Così potrei chiederti scusa quando ti faccio arrabbiare ma potrei anche spiegarti il mio mondo.                                                                                                    Ne io ne te sapevamo che saremmo arrivati a questo punto quando, dopo tanti esami diagnostiche ed estenuanti visite mediche,  mi hanno diagnosticato finalmente l’Alzheimer. Faceva meno paura quando si trattava solo di dimenticare l’acqua aperta qualche volta o di chiudere casa quando uscivo, per anni sono riuscito a nascondervi queste piccole dimenticanze tanto da farmi pensare che se riuscivo a tenervele nascoste era tutto sotto controllo. Poi , eh poi mi sono perso e ho dovuto chiamare tua madre, ma lei non ha mai voluto prendere la patente e ha dovuto chiamarti… ti sei arrabbiato tanto quella volta perché hai dovuto lasciare il lavoro e avevi una riunione importante, volevo solo andare a vedere la recita di tua figlia ma la città è così confusa e i mezzi pubblici non li capisco con tutti quei colori e numeri, poi …. Mi hai detto che tua figlia ha sedici anni e di recite non ne fa più da anni… eppure in quel momento ero proprio convinto che fosse più piccola.

Per un po’ di tempo è andato tutto bene, ricordavo che tua figlia era una giovane donna e non mi sono più perso, ma questo conta poco, sono passati cinque anni e oggi vivo in una rsa con una porta che cerco di aprire, ma non ci riesco mai.

Cammino lungo quei corridoi da solo ma io intorno a me vedo tante persone, tanti amici del passato, c’è anche Enrico, e io cammino per ore. Chi mi vede da fuori si chiederà che senso ha fare il giro del reparto per ore, ma io non vedo i muri, le porte delle stanze, la saletta della tv…. No io vedo vialetti di ghiaia, alberi dalle foglie gialle e arancioni che annunciano che l’autunno è arrivato. Vedo la vecchia stazione dove il treno si fermava solo quattro volte al giorno, e sento mia madre che mi chiama dalla finestra promettendomi di darmele di santa ragione con la temibile ciabatta se avessi nuovamente rotto i pantaloni.

Qualche volta vedo anche diavoli o draghi che mi spaventano, qualche volta sento voci che mi fanno impazzire ma nessuno riesce a farle stare zitte.

Qualche volta invece vedo te, raramente ma ti vedo, ma quando succede mi rendo conto che ti vedono anche gli altri. Sento gli infermieri dirmi “guarda chi è venuto a trovarti?” sono felice per qualche attimo ma poi vorrei che te ne andassi subito perché sei sempre così arrabbiato, stai quasi sempre in silenzio, guardi spesso l’orologio e passi il tempo con il telefonino in mano…

Ricordo che i primi tempi che ero qui, quando venivi mi portavi al bar a bere il caffè ma ora non lo fai più, ti vergogni forse, o forse ti sembra solo inutile, ma a me piaceva quando lo facevi.. Non era tanto per il caffè, che ora credo non mi piaccia neanche più, ma perché provavo una bella sensazione, indescrivibile: io e te tra la gente a parlare proprio come tanto tempo fa, e questo mi regalava per pochi attimi l’impressione di non essere un peso, di non crearti imbarazzo, di non essere odiato da te. A volte vorrei chiederti il perché di tanto rancore, è la malattia a farmi essere così, per quanto sia difficile, figliolo, cerca di non dimenticare mai che non è una mia volontà, se fossi ammalato di tumore tu non porteresti rancore, anzi faresti di tutto per passare più tempo possibile con me invece ho l’Alzheimer …

Qualche volta capita che pianga e ti chieda di portarmi a casa e quando lo faccio ti alzi velocemente chiedi agli infermieri di aprirti per farti uscire e te ne vai senza neanche il frettoloso “ciao pa” che mi dedichi abitualmente.

Vorrei tanto che tu vedessi quello che ho dentro, no, tranquillo, non dentro la testa, quello spaventa anche a me, non ti farei mai questo, ho passato la vita a proteggerti dalle cose brutte del mondo e quello che ho in testa è forse tra le cose più brutte che io abbia mai visto. No, vorrei che tu vedessi dentro il mio cuore, sai quello è rimasto lo stesso di prima.

Sono certo che se tu vedessi il mio cuore non mi odieresti così tanto, se tu vedessi quanto dolore e solitudine porto qui dentro …. Così tanto dolore che vorrei morire. Se tu provassi a guardare il mio cuore trascurando le frasi sciocche che dice la mia voce tremante, dettate da una malattia che spaventa entrambi sono sicuro che mi ameresti come un tempo.

Io vorrei tanto uscire tra la gente senza aver paura dei rumori delle auto, senza quella sensazione devastante di non riconoscere la strada di casa. Vorrei così tanto la mia vecchia vita, così potrei viverla con te senza leggere sul tuo volto la vergogna

Quando parli di me coi tuoi amici ridi di me con loro raccontando affranto di quella volta che ho messo i pantaloni del pigiama sopra ai pantaloni, o dell’altra volta che ho mangiato il pannolone, e dell’altra volta ancora che ho mangiato la minestra con le mani, non mi offendo sai? Ma vorrei partecipare anche io…. Raccontare anche io qualche storia che fa ridere come ad esempio quando da piccolo non volevi imparare ad usare il vasino e finiva che facevi la pipi a letto,  o di quando ti ostinavi a voler mangiare da solo e il cucchiaio invece di portarlo alla bocca te lo rovesciavi sui vestitini appena cambiati che ancora profumavano di pulito o ancora di quando  per la prima volta ti sei visto in uno specchio e ti sei spaventato mettendoti a piangere , così potrei ridere … non di te ma con te, e potremmo essere complici come un tempo.

Io vorrei che le voci e i volti non fossero per me tutti così anonimi, vorrei non dover sorridere imbarazzato perché non riconosco le persone o perché non capisco quello che dicono, si perché sai figlio mio, non è che non senta, io non capisco proprio il significato delle parole, un po’ come quando sei andato la prima volta a Londra e mi chiamavi al telefono sconfortato perché non riuscivi a capire la lingua, solo che nel mio caso non ci esistono corsi con professori madrelingua che possano rimediare.

Mi spaventa l’idea di avere ancora tanti anni da vivere così, in questo oblio dove io non sono più io e la realtà cambia ogni secondo. Preferirei avere un solo giorno, magari un giorno di sette anni fa,  e magari un Natale tutti insieme, indossare il maglione che mi regali tu, scattare tante fotografie che immortalano le nostre risate, che tu potrai rivedere negli anni futuri con un sorriso misto di felicità e malinconia. Fotografie che ti ricordano che sei e sarai sempre la miglior cosa della mia vita.

“Siamo noi gli inabili, 
che pur avendo a volte non diamo.
Dimentica, c’è chi dimentica,
distrattamente un fiore una domenica
e poi… silenzi. E poi… silenzi. Silenzi…”

Renato Zero