Le supplici-Teatro degli Incontri
di Ernesto Miramondi
Foto di Anna Roberto
Pubblicizzato sui social, per passaparola ma anche per passione. Il punto di incontro è in via Angelo Mosso. L’ingresso indicato è una cancellata di fronte al numero 47. Un dedalo di strade a ridosso del grosso bastione della ferrovia che fa tanto periferia anche se si è a poca distanza dalla stazione Centrale. I treni che passano. Caratteristiche di un luogo remoto, che a percorrerlo ti coglie la sensazione che il tempo non voglia scorrere in avanti e l’essere di sabato pomeriggio non fa che amplificare tale sensazione. Sono cresciuto in un quartiere non molto lontano da lì e la sensazione che provo quando ci vado è la medesima. Perdo il senso del tempo ma anche la percezione della mia età. Mi ritrovo bambino in mezzo a tanti bambini, corse tra i cortili e le strade polverose. Un mondo eterogeneo che brulica di vita, di speranza e di famiglie provenienti dal meridione in cerca di un luogo per ricominciare. Non capisco più se sono negli anni sessanta o nel nuovo millennio. Il paesaggio non è cambiato granché e mi aspetto di veder passare le stesse facce di allora. Quelle magari no, si sono perse nel fiume degli anni trascorsi, ma i loro sogni e le loro speranze sono ancora lì, palpabili, e sono nell’aria e nelle facce nuove, meravigliosamente colorate, che percorrono lo stesso cammino di mio padre, di mia madre e dei miei fratelli di vita.
Entrato nel cancello mi ritrovo in una serie di cortili adiacenti connessi tra loro ed infine, giunto in un spazio molto ampio, raggiungo il luogo della rappresentazione teatrale: “Le supplici” tratto dalla tragedia greca di Eschilo. arrivo che è appena iniziata e… che dire???… è già magia!
L’immaginario rappresentativo della tragedia ci riporta alla mente il mondo greco con i suoi anfiteatri, gli attori posti nel centro e gli spettatori seduti sugli spalti, a semicerchio. Quanto invece sta avvenendo lascia noi spettatori sorpresi. Scopriamo di trovarci proprio al centro della scena. Infatti l’impianto scenico non è a 180 gradi come potrebbe essere da un palcoscenico e neppure a 360 gradi come avviene in una rappresentazione di piazza, con gli spettatori tutt’attorno assiepati. Qui l’impianto scenico è sparpagliato su un piano orizzontale. Piano che contiene contemporaneamente teatranti, materiali scenici e spettatori, in un’amalgama che a tratti diviene fusione e rende lo spettatore così partecipe della scena da renderlo parte di essa, permettendogli di viverla dall’interno.
E’la magia creata dal gruppo “Teatro degli Incontri”. Già vissuta in “Canto Clandestino”, un’altra loro piece teatrale tratta da un testo di Mimmo Sammartino, una rappresentazione ricca di forza espressiva e poesia, narrante del naufragio di 283 migranti nel canale di Sicilia la notte di Natale. Morti annegati, morti nell’indifferenza, nel dolore di aver perso la loro identità di uomini, che intonano e fanno pervenire il loro canto dal profondo degli abissi.
“Teatro degli Incontri”, un crogiolo di “meticciato” a tutto campo, un vero laboratorio dove tutto è in dialogo, spettatori e teatranti, l’antico come il nuovo, i temi sociali e i migranti.
E così accade che in un caldo sabato pomeriggio, in un quartiere di Milano deserto e sonnolento, mi ritrovo al centro di una tragedia greca, io, spettatore, ho attorno a me la scena, vivo il prologo, sento i cori e le danaidi sono là, dove sono io. Percepisco il loro sgomento. Le vedo fiere chiedere asilo e protezione per non accettare un destino non voluto, in nome dell’ospitalità che è per i greci cosa sacra. Vivo le loro vicissitudini, i dubbi di chi dovrebbe dare loro protezione ma non sa se accettare. Per convenienza, per timore di ritorsioni, per cento, mille ragioni che, vere o false che siano, allontanano dalla vera questione: l’ospitalità è per antica tradizione inviolabile. Mi sento parte di quanto avviene attorno a me ed è sempre più grande la consapevolezza che quanto sto vivendo ha una doppia valenza simbolica. Perché la richiesta di asilo, il richiamo ad un vincolo di sangue inteso come un vincolo universale tra gli uomini, sono temi per eccellenza validi in tutti i tempi e a maggior ragione più che mai attuali. Così com’è attuale la necessità di dare protezione e aiuto a chi ne ha necessità, indipendentemente dalla religione, colore della pelle, tendenze sessuali o altro. Dignità nel vivere ma anche nella morte. Il riconoscimento di appartenere ad una sola razza, quella umana. Allora, solo allora, la duplice maschera che da un lato è rappresentativa della tragedia greca e dall’altra è l’effige di un migrante, diventa un tutt’uno e la tragedia che sto vivendo acquista la dimensione di un mondo dove tutti gli esseri sono finalmente riconosciuti nella loro pari dignità.
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