[di Anna Roberto]
Spaziocidio e resistenza in Palestina

[Poster Wanted Cinema presenta: No Other Land]
Sebbene informandosi si riesca ad avere un’idea di cosa stia succedendo in Cisgiordania. Sebbene giungano i video delle distruzioni da parte dell’esercito e del governo israeliano, delle aggressioni da parte dei coloni sugli abitanti inermi dei villaggi, delle violenze che si abbattono anche sui raccolti e sugli alberi.
E ancora, i racconti sulle massicce operazioni militari lanciate da Israele nelle diverse città della Cisgiordania occupata, Jenin, Tulkarem, Nablus, Tubas. Delle deportazioni della popolazione, degli omicidi, degli arresti amministrativi di adulti e minori portati via spesso di notte senza alcuna accusa; detenzioni usate e abusate da Israele -solo per i palestinesi- come deterrente per lo scoppio di proteste.
Nonostante ciò, dopo aver visto questo film si rimane come storditi.
Vedere la sequenza ininterrotta dei soprusi perpetrati di anno in anno, di mese in mese, di settimana in settimana, quel ripetersi ossessivo delle stesse scene di feroce devastazione all’arrivo di ruspe e mezzi militari israeliani, immedesimarsi in quella frustrazione e in quella paura che attanaglia le notti e i giorni, con la telecamera che sbanda, cade, corre assieme al protagonista, toglie letteralmente il fiato.
La negazione continua di ogni possibilità di futuro. Di ogni possibilità di presente.
Eppure continuare a vivere.
Masafer Yatta. Un agglomerato di 19 villaggi sulle colline di Hebron. Basel e Yuval documentano per cinque anni l’esproprio della terra e le continue distruzioni.
La comunità che vive coltivando la propria terra e allevando il bestiame, non sta in silenzio, reagisce organizzando manifestazioni di protesta senza mai rispondere alla violenza con la violenza, ma opponendosi alle sistematiche demolizioni delle proprie case ricostruendole ogni volta.
E ogni volta Israele torna a distruggerle. Impunito. Un incessante “gioco” spietato di espulsioni e demolizioni, di forza e resistenza. Le ordinanze di demolizione del governo vengono presentate agli abitanti con la motivazione di abusivismo.
Ma i palestinesi possono costruire legalmente meno dell’1% dell’Area C e i permessi edilizi di questo 1% sono per lo più rifiutati dall’amministrazione israeliana.
E se provano a fare ricorso presso la corte suprema di Tel Aviv, non ottengono mai giustizia.
La negazione continua di ogni diritto.

[Al Mafkara Masafer Yatta – lic.CC BY-SA 4.0 aut. Picasa]

[Casa a Khallet a-Dabe a Masafer Yatta-lic.CC BY-SA 4.0 aut. Kendler]
Masafer Yatta fa parte della zona C, denominazione data ai territori palestinesi rimasti sotto il totale controllo amministrativo e militare di Israele e che in base agli accordi di Oslo del 1993 sarebbero dovuti diventare territorio dello Stato di Palestina entro cinque anni.
Ne sono passati più di 30 e l’occupazione è diventa sempre più feroce.
Comunità intere trasferite con la forza dalle proprie terre per destinarle alle colonie e agli insediamenti israeliani autorizzati da Tel Aviv.
Colonie che però, ai sensi del diritto internazionale, sono illegali, perché non è possibile deportare gli abitanti delle zone occupate.
Mohammed Haddad, nell’interessante articolo pubblicato l’11 luglio 2024 da Al Jazeera, descrive e rappresenta visivamente attraverso mappe, grafici e ideogrammi, l’appropriazione illegale da parte di Israele delle terre palestinesi.
Alla fine del dominio ottomano gli ebrei presenti in Palestina possedevano solo il 3% della terra.
Nel 1948 alla fine del Mandato Britannico e a seguito della prima guerra arabo-israeliana i sionisti espulsero circa 750.000 palestinesi (la Nakba) e conquistarono il 78% della terra. Il restante 22% fu suddiviso tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Con la guerra del giugno 1967 Israele occupò tutta la Palestina e nel 1980 formalizzò l’annessione di Gerusalemme est. Inoltre“ Dal 1998 Israele ha confiscato più di 50 km2 di terra palestinese. Solo nel 2024, durante la guerra in corso a Gaza, Israele si è illegalmente impadronito di 23,7 km2 di terra palestinese nella Cisgiordania occupata. Più di tutta la terra di cui si è appropriato negli ultimi 20 anni messi insieme. Il 2 luglio (2024), le autorità israeliane hanno annunciato la più grande singola confisca in oltre 30 anni: 12,7 km2 nella Valle del Giordano”
(https://www.aljazeera.com/news/2024/7/11/how-israel-keeps-stealing-palestinian-land)[1] …………………………………………… Quanto sono grandi 23.7 km2? L’equivalente di 3.300 campi di calcio – Una terra mangiata, rubata, abusata.
E poi Gerusalemme.
Per i palestinesi Gerusalemme è una linea rossa da non superare. La Cupola della Roccia, costruita in cima al Monte del Tempio della Città Vecchia di Gerusalemme, è il simbolo e l’identità stessa della Palestina. È un luogo iconico. Per i palestinesi di Gaza, imprigionati nella striscia, senza possibilità d’uscirne, è il sogno, la meta irraggiungibile. Un immenso dolore che non trova pace.

[Free Jerusalem image, public domain Israel CC0 photo]
Il muro attraversa la Cisgiordania per oltre 700 km ma non è uno sbarramento fisso. Continua a muoversi, avanza tortuosamente, poi arretra, svolta, arranca, riprende l’avanzata e torna ancora a strangolare. A dividere città e villaggi. A separare famiglie e terre da coltivare. A chiudere in una prigione.
I punti d’ancoraggio del Muro sono gli avamposti dei coloni. Un avamposto non è ancora una colonia. Ne è il principio: è un’antenna, qualche roulotte, un palo, una bandiera israeliana. Dagli avamposti nascono le colonie, una qua, una là, (si notano bene nel film di Basel e Yuval, sono le molteplici luci notturne delle case che si intravedono e circondano i villaggi)

[Betlemme. Il muro visto dal campo profughi di Aida-Flick aut.Paolo Cuttitta- lic. CC BY 2.0]
e quindi il Muro si sposta, ne segue le costruzioni, si aggroviglia per “proteggere” gli israeliani che si sono chiusi ermeticamente dentro i loro recinti, dentro le loro case dai tetti rossi tutte allineate, costruite sempre in posizioni dominanti, in cima alle colline, per avere il controllo del territorio.

[MURO in Cisgiordania-W. Commons lic.CC BY 2.0]
Oltre all’edificazione del Muro, ci sono i posti di blocco militari, i check point, le chiusure d’emergenza, i blocchi stradali. E poi le zone rosse, le aree precluse ai civili, le zone di sicurezza speciale.
Anche tutte queste barriere non sono fisse, si spostano di continuo, scompaiono per poi ricomparire in un altro luogo, circondando all’improvviso una nuova strada, un nuovo villaggio.
Il traffico palestinese è sempre diverso e sempre ostacolato. Gli israeliani possono percorrere altre strade.

[HEBRON Controllo delle frontiere dalla cima di un palazzo-Flikr aut. P. Cuttitta lic.CC BY 2.0]

[Check-point tra Habla e Qalqilya-Flikr aut. P. Cuttitta lic.CC BY 2.0]
Tutto si traduce in una pratica asfissiante di controllo dello spazio e dei passaggi.
Spazi elastici e fluttuanti che non concedono tregua.
È così che il territorio palestinese occupato viene continuamente trasformato e rimodellato, strozzando sempre più coloro che lo abitano.
Un modo più lento dell’orrore profondo dei bombardamenti, ma non meno orribile, non meno violento.
La terra non è più luogo, diviene strumento di guerra.
Eyal Weizman lo ha ben definito nel suo saggio Spaziocidio. Israele e l’architettura come strumento di controllo.
Lo stato d’Israele, dunque, già dal suo esordio 77 anni fa, è stato fondato sul presupposto della pulizia etnica e delle deportazioni.
Illuminante il racconto del grande scrittore palestinese Ghassan Kanafani Ritorno ad Haifa del 1969
“A un tratto si udì la voce del mare, proprio come una volta, no, la memoria non gli tornava poco a poco, ma gli sembrò che crollasse dentro la sua testa, così come crollano le pietre di un muro, che si ammassano una sull’altra”
“Lo sai che cos’è la patria, Safiya? La patria è che tutto questo non succeda”
Ecco, quindi, che quando si finisce di vedere No other land, la domanda che sull’onda emotiva viene da porsi è “Cosa possiamo fare?”.
Sono tante le cose che ognuno, con le proprie possibilità, le proprie capacità, la propria volontà può fare. Tuttavia la vera domanda -la prima- è “Serve?”
Serve un film come No other land a porre fine alle ingiustizie? Serve che i popoli del mondo (non i governi, i popoli del mondo) continuino a levare la propria voce in protesta contro il Genocidio del popolo palestinese? Contro le scellerate declamazioni di Trump sull’appropriarsi della striscia di Gaza e sull’espulsione dei suoi abitanti nativi? “La controlleremo, la svilupperemo, la trasformeremo”.
Servono le migliaia di immagini e video che da anni i reporter palestinesi inviano da Gaza e Cisgiordania sui social?
Serve resistere?
No other land. Nessun’altra terra.
La risposta è qui. È nel titolo del film girato tra l’estate del 2019 e l’ottobre 2023 da un collettivo di quattro registi: i due protagonisti Basel Adra, il ragazzo palestinese che sin da adolescente ha iniziato a filmare la vita e le aggressioni nel suo villaggio, e Yuval Abraham, giornalista israeliano, assieme al regista e fotografo palestinese Hamdam Ballal, e Rachel Szor, regista israeliana.
Il film sta continuando a ricevere meritati riconoscimenti ed è stato nominato agli Oscar, anche se negli Stati Uniti ha avuto notevoli problemi di distribuzione (avrà Hollywood il coraggio di farlo vincere?).
“Sono onorato della nomina, ma verremo cancellati mentre Trump ha revocato le sanzioni contro i coloni statunitensi [e il governo israeliano ha revocato le detenzioni amministrative per i coloni israeliani]. Alla gente di Hollywood importa?” (Basel)
“Per me, il valore principale della nomination all’Oscar è che porterà più persone a vedere il film e a vedere ciò che stiamo documentando. Quando lo abbiamo realizzato abbiamo sempre pensato tra noi: “La gente lo vedrà?”.
Avevamo paura che lo vedessero solo i nostri genitori. Abbiamo montato il film praticamente in una grotta a Masafer Yatta. Non avevamo un budget elevato o mezzi sofisticati. E continueremo a documentare, perché è quello che facciamo” (Yuval)
E proprio a causa di questo successo Basel e Yuval sono stati minacciati di morte da gruppi di estrema destra israeliani, Yuval accusato di antisemitismo dopo la vittoria alla Berlinale.
“Mi addolora vedere come, dopo aver colpito la maggior parte della mia famiglia nell’Olocausto, la parola ‘antisemitismo’ si svuoti di significato per mettere a tacere i critici dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e legittimare la violenza contro i palestinesi” (Yuval)
Basel il 3 febbraio 2025 su X “Mentre scrivo sono circondato da coloni armati e mascherati che stanno conducendo un attacco terroristico su Masafer Yatta”.
E allora la risposta è nella scrittura di Yuval, è nella telecamera di Basel che continua a filmare malgrado il pericolo, la distruzione, le atrocità dell’esercito israeliano e i soprusi dei coloni.
Il film, che racconta la progressiva cancellazione di Masafer Yatta, narra anche la storia di un’amicizia, nonostante la grande differenza di condizioni di vita e possibilità “La speranza è un privilegio di chi può tornare a casa libero la sera, spostarsi o votare”, dirà Basel nel film.
La risposta, forse, passa anche da lì. Dalla loro amicizia. Come l’amicizia di Bassam Aramin, palestinese e Rami Elhanan, israeliano, narrata nel libro Apeirogon di Colum McCann.
Passa dai giovani israeliani che rifiutano di arruolarsi, che rifiutano la guerra. Dagli attivisti israeliani che sostengono il dialogo e la conoscenza reciproca (che viaggia anche attraverso la conoscenza delle due lingue così diverse, per poter accedere a libri e articoli senza avere filtri).
È anche quella la strada. Riuscire a dare voce agli ebrei del mondo che contestano i crimini di Israele, rimarcando la differenza tra l’essere ebreo e l’essere sionista: “Non in mio nome”.
Eppure giunge la seconda domanda. “Potranno riuscire a vivere assieme palestinesi e israeliani?”. Non ora, non penso. Troppo il dolore inferto. Troppo il sangue. Ci vorranno diverse generazioni, ci vorrà una precisa volontà politica di riconoscere i diritti del popolo palestinese e leader capaci di attuare un sogno. Quel sogno che era di Nelson Mandela
“Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutti possano vivere uniti in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di poter vivere e che spero di attuare”.
Mentre scrivo giunge la notizia dell’irruzione da parte della polizia israeliana nella biblioteca educativa di Gerusalemme Est, luogo conosciuto e amato dalle persone di tutto il mondo. Il luogo è stato distrutto, i libri confiscati, i proprietari Mahmoud e Ahmed Muna, padre e figlio, arrestati senza accuse.
“Quando un regime ha paura dei libri, è un altro segno che i suoi giorni sono contati. C’è un grido di protesta all’interno di Israele che è encomiabile – non pensavo che nemmeno questo sarebbe più accaduto” (Ilan Pappé)
“Potranno riuscire a vivere assieme palestinesi e israeliani?”.
E seppure oggi pensassi a “due popoli e due stati” dovrei pormi una terza domanda: “Dove?”
Dove dovrebbe essere lo Stato palestinese? In che luogo, su quale terra? La terra in Cisgiordania è stata depredata, le case rase al suolo, gli alberi distrutti. Terra che trabocca di colonie. Dove dovrebbero tornare i gazawi? L’85% di Gaza non esiste più. Sono state distrutte le infrastrutture, le abitazioni, gli ospedali, le università, le scuole, i negozi. Se veramente entrassero gli aiuti umanitari necessari (e Israele non concede i permessi che dovrebbe, mentre i coloni distruggono molti dei generi alimentari e sanitari prima che entrino -la banalità del male-), quali strade percorrerebbero i camion? A Gaza non ci sono più strade, non sono più riconoscibili.
Eppure No other land.
Restare. Resistere. Raccontare.
“Se le nostre voci vengono silenziate o uccise, allora voi dovete diventare la nostra voce” (Hossam Shbat, Reporter in Gaza)

[Vista di Nablus da una collina simbolo-foto di E. Castellani]
“Serve?”
La risposta, infine, la impariamo proprio da loro. Dalla gente di Palestina. Dalla sua incrollabile, invincibile resilienza.
Ce la suggeriscono i volti dei bambini che, sovrastati dalle macerie, salutano il mondo sorridendo verso la telecamera nonostante i traumi pesantissimi le cui cicatrici non si cancelleranno. Ce la ricordano i gesti delle donne che si prendono cura dell’altro, che cucinano tra le rovine e continuano a donare la vita. E degli uomini che proteggono, che scavano a mani nude per cercare i propri figli, che ricostruiscono e ricostruiscono e ricostruiscono e ripiantano alberi.
Perché “la volontà della nostra gente sarà in grado di ricreare la vita” (Wael Al-Dahdouh, reporter di Al-Jazeera in Gaza)
Perché non c’è nessun’altra terra. No other land.
“Mi basta morire sulla mia terra
essere sepolta in essa
sciogliermi e svanire nel suo suolo
e poi germogliare come un fiore
colto con tenerezza da un bimbo del mio paese.
Mi basta rimanere
nell’abbraccio del mio paese
per stargli vicino, stretta,
come una manciata
di polvere
ramoscello di prato
un fiore”
(Fadwa Tuqan, poetessa palestinese)

[Territorio di Cisgiordania – di rawpixel.c – lic. CC0 1.0]
NOTA [1] la traduzione in italiano a cura di Assopace Palestina al link https://www.facebook.com/story.php?story_fbid=1031475102358246&id=100064872960617&rdid=q9AEnP4zLAuJDSaK)
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