[Testo e foto di Adriana Giannini]
UN FISICO PROVA A DARE UNA RISPOSTA
L’opera più iconica di Piero Manzoni mantiene la sua provocazione, ma perde un po’ del suo fascino scatologicoEsattamente sessanta anni fa, nel febbraio 1963, moriva a neppure trent’anni uno dei più irriverenti e famosi artisti dell’avanguardia italiana dell’arte concettuale Piero Manzoni, lontanissimo parente del Manzoni letterato.
A lui e alla sua opera più celebre, la scandalosa scatoletta etichettata come “Merda d’artista”, realizzata nel 1961 in 90 esemplari numerati e firmati dall’autore, esposta in una decina di musei di tutto il mondo, tra cui il Museo del ‘900 di Milano, e gelosamente conservata dalla Fondazione che porta il suo nome e da svariati collezionisti privati, è stato dedicato un convegno internazionale tenutosi il 10-11 marzo presso il Dipartimento di Culture e Civiltà dell’Università di Verona a cura di Luca Bochicchio e Rosalia Pasqualino di Marineo nipote dell’artista.
La gran parte dei relatori, esperti di belle arti, di filosofia e di sociologia, ha messo in luce il ruolo innovativo e la forza provocatoria di questo gesto artistico di Piero Manzoni, il più estremo da lui compiuto dopo le tele acromatiche, le linee tracciate e racchiuse in cilindri, i fiati d’artista e l’uovo sodo nobilitato dalla sua impronta digitale.
Nessuno di loro, però, è entrato nei dettagli dell’esecuzione del manufatto e del suo stato di conservazione e soprattutto nessuno ha affrontato l’annosa questione sulla quale sotto sotto si interrogano tutti. La scatoletta contiene effettivamente quello che è dichiarato nell’etichetta, ossia “30 grammi di autentica merda d’artista prodotta e inscatolata nel mese di maggio 1961 e conservata al naturale”?
A dare una risposta su questi ultimi argomenti la Fondazione Piero Manzoni di Milano ha chiamato due esperti: Laura Mensi dell’Università IUAV di Venezia e Nicola Ludwig dell’Università Statale di Milano.La prima ha avuto il compito di studiare lo stato di conservazione di svariati esemplari delle ormai ultrasessantenni scatolette e il secondo di verificare in maniera necessariamente non invasiva il reale contento del manufatto.
Laura Mensi ha riferito di aver constatato che le scatolette da lei esaminate pur essendo leggermente arrugginite e presentando etichette in parte abrase o scolorite, sono comunque in buone condizioni e rivelano un’alta qualità sia nel tipo di carta sia nella stampa tipografica. Insomma per ora hanno resistito bene al tempo e non essendo state aperte mantengono il loro valore per i collezionisti, un valore che da subito Manzoni aveva stimato pari al peso in oro del loro contenuto, 30 grammi esatti.
Nella sua relazione Nicola Ludwig ha raccontato di aver affrontato l’impresa utilizzando tutti i mezzi fisici non invasivi a disposizione del suo laboratorio che si occupa di indagini sui beni culturali. In realtà gli è bastata un’attenta osservazione per risolvere il mistero di come erano state sigillate le scatolette mentre il microscopio ha rivelato un’etichetta falsa su una delle 11 che gli erano state affidate. Le altre, studiate ai raggi X, hanno tutte rivelato la presenza al loro interno di una scatoletta più piccola il cui contenuto è esattamente di 30 millilitri.
Veniamo ora al materiale che occupa parzialmente la seconda scatoletta.
Esso osservato ai raggi X si è dimostrato radiopaco, il che fa ritenere che possa trattarsi di gesso o di argilla, anche perché l’esame spettrografico dello scarso percolato uscito spontaneamente da una scatoletta esclude che possa provenire da feci essiccate.
In conclusione il provocatore Piero Manzoni avrebbe fatto un lavoro artigianalmente perfetto, ma più “pulito” di quello che aveva fatto credere ai suoi fiduciosi estimatori.
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